Sulla possibilità di una Teodicea (3)

Tentando una quantomai difficile semplificazione, cum grano salis, può dirsi che nel pensiero antico il male o non necessita di una causa oppure questa trova in altro da dio.

Nel primo caso, il male è assenza di bene, è un non-essere: una mancanza; nel secondo caso, invece, il male è riconducibile ad un principio che sfugge al controllo di dio o che comunque di quest’ultimo costituisce un limite.

Così per Proclo il male non ha realtà propria, ma solo derivata, costituendo peraltro esso stesso uno strumento della “provvidenza”:

“Se tutto proviene dalla provvidenza, allora anche il male trova posto tra gli enti. E così si può dire che gli dei creano anche il male ma in quanto bene e lo conoscono in quanto hanno di tutte le cose una conoscenza unitaria. […] Non è possibile che il male esista senza mostrarsi insieme con i caratteri del suo contrario, il bene, giacché tutto esiste in virtù del bene, compreso lo stesso male. Ma allora tutte le cose esistono per il bene e il divino non è causa dei mali”. (De malorum subsistentia)

Nel secondo senso, Platone:

dei beni nessun altro è causa all’infuori di Dio, ma la causa dei mali va ricercata in altre cose consimili, non in Dio” (Repubblica, II, 18, 379c).

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L’altro da dio, il principio del male, ciò che a questo è consimile, è la tendenza alla corruzione insita nella “parte corporea”; da qui, specie in Plotino, l’identificazione del male con la materia.

Il dualismo testè evidenziato trova la sua maggiore espressione nel Manicheismo. Sorto nel III sec. d.C. in Persia e diffusosi rapidamente in Siria, Palestina e nel Nord Afrca, il Manicheismo era assertore, come noto, di una netta ed inconciliabile contraddizione tra bene e male. Dio è buono, ma non onnipotente, esistendo un principio diverso ed opposto che ne costituisce il limite.

Avverserà profondamente il Manicheismo, dopo un iniziale accostamento, Agostino.

 

Sulla possibilità di una Teodicea (2)

LA SOFFERENZA DEI GIUSTI

Se è solo con gli scritti di Leibniz che viene introdotto il termine “teodicea”, l’affrontare il problema della coesistenza di Dio e del male ed il cercare di porre a questo soluzione non possono certo dirsi frutti di sensibilità moderna. La riflessione fiolosofico-teologica volta al tentativo di conciliare l’apparentemente inconciliabile, ossia la sussistenza di una Giustizia Assoluta che punisca la colpa e gratifichi la rettitudine con la quotidiana realtà del colpevole impunito e del giusto sofferente, affonda invero le proprie accertate radici storiche già nella letteratura sapienziale egizia e babilonese; con accenti variamente declinati ritorna nella tradizione greca: nel prologo dell’Odissea, in Eschilo, in Anassimandro, in Platone, in Plotino…

Alle radici del pensiero giudaico cristiano è paradigmatico l’esempio di Giobbe:

“Nella regione di Uz viveva un uomo chiamato Giobbe. Era onesto e giusto, rifiutava il male perché rispettava Dio. Aveva sette figli e tre figlie. Possedeva settemila pecore, tremila cammelli, mille buoi, cinquecento asine e aveva moltissimi servitori. Era l’uomo più importante tra quelli che vivevano a Est di Israele” (Giobbe 1,1);

“- Hai notato il mio servo Giobbe? – chiese ancora il Signore. Poi aggiunse: – In tutta la terra non c’è nessuno onesto e giusto come lui. Egli rifiuta il male perché serve Dio” (Giobbe 1,8);

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Un uomo venne a dire a Giobbe: – I predoni Sabei …hanno rubato i buoi che aravano e le asine che pascolavano là vicino. Hanno ucciso tutti…- Mentre quest’uomo stava ancora parlando, un altro servo venne a dire a Giobbe: – E’ caduto un fulmine che ha ucciso il tuo gregge e i tuoi pastori…- Quest’uomo non aveva finito di parlare, quando un altro venne a dire a Giobbe: – Tre bande di predoni babilonesi si sono gettate sui tuoi cammelli, li hanno presi e hanno ucciso i tuoi uomini…- Quest’uomo stava ancora parlando con Giobbe quando un altro venne a dirgli: – I tuoi figli e le tue figlie banchettavano a casa del fratello maggiore e, d’un tratto, un vento fortissimo…ha fatto crollare la casa. Sono morti tutti...-” (Giobbe 1,14-1,19);

Satana si allontanò dal Signore e colpì Giobbe con una terribile malattia… Andò a vivere tra i rifiuti e la cenere…” (Giobbe 2,8).

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Il libro di Giobbe è opera complessa: il racconto in prosa, di tipo popolare, caraterizza inizio e fine; il corpo centrale è costituito invece di ben 40 capitoli nello stile della poesia ebraica.

Il contenuto, nei suoi tratti essenziali, è noto:

– (capitoli 1-2): Giobbe, uomo giusto, viene colpito da tremende disgrazie. Egli non sa che Dio lo sta mettendo alla prova, tuttavia mantiene ferma la sua fede;

– (capitoli 3-27): tre amici, Elifaz, Bildad e Zofar, vengono a consolare Giobbe. Per loro la sofferenza è sempre la punizione di una colpa. Giobbe sostiene la sua innocenza e rifiuta di considerare le sue sofferenze come una punizione divina. Anzi: vuole incontrare Dio perché è certo di ottenere da Lui giustizia;

– (capitolo 28): elogio della sapienza;

– (capitoli 29-31): Giobbe ribadisce le sue ferme convinzioni;

– (capitoli 32-37): interviene un nuovo personaggio, Eliu, il quale vuole dimostrare che la sofferenza aiuta l’uomo a prendere coscienza di sè, perché ha un valore educativo;

– (capitoli 38-42): dialogo tra Giobbe e Dio;

– (capitolo 42): a Giobbe viene fatto dono di ogni possibile ricchezza e letizia.

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Esulando certo dalla presente riflessione ogni tracotante convinzione di completezza ed esaustività, preme soffermare l’attenzione sulle parole di Eliu il quale afferma:

Sulla base di una conoscenza profonda, voglio rendere giustizia al mio creatore” (Giobbe 36,3).

Eliu è in collera con Giobbe, perché questi, difesosi dalle accuse dei tre amici Elifaz, Bildad e Zofar e proclamatosi innocente, “si considerava più giusto di Dio” (Giobbe 32,3). Diversamente da coloro che, in quanto più anziani, hanno parlato prima di lui, Eliu non ricerca la spiegazione della sofferenza nella Giustizia Retributiva; egli introduce un concetto nuovo, quello della sofferenza come prova con fine salvifico:

Quando gli uomini sono improgionati ed afflitti dalle conseguenze delle loro azioni, Dio mostra loro gli errori e le trasgressioni che hanno commesso per orgoglio, apre le loro orecchie perché imparino e li invita ad abbandonare la stoltezza. Se essi ascoltano ed ubbidiscono, trascorreranno i loro giorni e i loro anni nel bene e nella prosperità. Ma se non ascoltano, verranno colpiti, moriranno senza rendersene conto. I malvagi, invece, saranno pieni di collera e non invocheranno aiuto nemmeno quando Dio li punisce. Essi moriranno ancora giovani… Dio soccorre l’afflitto con la sofferenza, lo corregge mediante la disgrazia” (Giobbe 36, 8-13)

Alla fine del libro, Dio si manifesta a Giobbe annichilendo, nella sterminata potenza della creazione, la fragilità del suo essere uomo: Giobbe ha preteso di capire cose che vanno al di là dei suoi limiti. A salvarlo è però la sua vera fede e per questo sarà premiato.

Il Libro si chiude così con la constatazione che nessuna idea umana può spiegare il mistero di Dio.

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Nel Nuovo Testamento:

“In quel momento si presentarono a Gesù alcuni uomini per riferirgli il fatto di quei Galilei che Pilato aveva fatto uccidere mentre stavano offrendo i loro sacrifci. Gesù disse loro: “Pensate voi che quei Galilei siano stati massacrati in questa maniera perché erano più peccatori di tutti gli altri Galilei? Vi assicuro che non è vero: anzi, se non cambierete vita, finirete tutti allo stesso modo. E quei diciotto che morirono schiacciati sotto la torre di Siloe, pensate voi che fossero più colpevoli di tutti gli altri abitanti di Gerusalemme? Vi assicuro che non è vero: anzi, se non cambierete vita, finirete tutti allo stesso modo” (Luca 13,4);

Cfr: “Dio rinfaccia ai re la loro arroganza e ai nobili la loro corruzione; non fa preferenze per i principi, nè favorisce i poveri: egli ha creato gli uni e gli altri. Tutti possono morire all’improvviso, nel cuore della notte, perire colpiti da un disastro” (Giobbe, 34,18-20).

 

 

 

 

 

Sulla possibilità di una Teodicea (1)

Una volta, tra amici, accadde che la discussione, improvvisamente, cambiò oggetto e se fino a pochi minuti prima si era parlato del perché la bruschetta con pomodoro, olio e aglio era meglio di quella con il prosciutto, si giunse a parlare dell’esistenza di Dio. Tra atei e credenti, tra allievi del classico ed allievi dello scientifico, lo scontro prese toni accesi, come sempre quando tra amici dispiace cedere la vittoria all’interlocutore avversario.

In quell’occasione, di là del banale, l’obiezione che molti persuase aveva questo tono: “ma come fai a credere in Dio, con tutto quello che succede di brutto nel mondo?”. Chi aveva posto la domanda allora era parecchio a digiuno di filosofia ed ancor di più di religione e molto di quanto aggiunse ritengo davvero non meritasse gran seguito.

Ma la prima domanda, il suo vero contributo, avrebbe meritato allora maggior attenzione: purtroppo il tema era un po’ fuoriluogo alle 23 di un sabato sera…

Così, a distanza di anni, mi permetto di riprendere l’argomento.

E dunque:

“SI PUO’ CREDERE IN UN DIO CHE CONSENTE IL MALE?”

e su piano diverso

” SI PUO’ ASSOLVERE DIO DALL’ACCUSA DI ESSERE RESPONSABILE DEL MALE NEL MONDO?”

Il problema della compatibilità tra Dio ed il male ha particolare rilievo nella tradizione giudaico-cristiana: in una religione monoteista non esistono altre entità pari a Dio alle quali possa imputarsi la responsabilità del male; inoltre, se Dio è infinitamente buono e infinitamente potente, come può esistere qualcosa al di fuori di Lui, contrario a Lui e che possa al contempo limitarLo?

Pare chiaro infatti che:

Dio o vuole togliere i mali, ma non può; oppure può, ma non vuole; oppure non vuole e non può; oppure vuole e può. Se vuole, ma non può, non è onnipotente; il che è inammissibilie in Dio. Se può, ma non vuole, è invidioso; il che pure è alieno da Dio. Se non vuole e non può, allora è invidioso e non onnipotente; e anche questo non può predicarsi di Dio. Se vuole e può, il che soltanto è predicabile di Dio, allora da dove vengono i mali e perché non li elimina?” (Epicuro)

Il difficile ruolo di difensore di Dio fu nella storia della filosofia (ma non solo di questa) assunto da molti, sebbene il termine “teodicea” [dal greco theos (dio) e dike (giustizia)] da intendersi come “render giustizia a Dio” – assolvendolo dall’accusa di essere Egli stesso cagione del male -, sia stato adoperato solo nel 1710, quando apparve l’opera leibniziana “Saggi di teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell’uomo e l’origine del Male“.

Vedremo nei giorni prossimi qualcuno di questi contributi.

[Nota: i toni iniziali possono indurre a ritenere che la trattazione dell’argomento in oggetto avvenga in maniera superficiale: non è così, almeno nelle intenzioni dello scrivente. I posts successivi al presente indulgeranno poco alla divagazione e cercheranno di essere il più precisi possibile. La sede (un blog) non è ovviamente la sede più appropriata per lunghi saggi di Teodicea; l’inevitabile conseguenza è che a volte si preferirà la sintesi alla profonda disamina. Quando ciò accadrà, sarà sempre intesa la riserva di maggior approfondimento in seguito]